Una difficile scelta di Resistenza
di Matteo Stefanori
La storia della Divisione Italiana Partigiana Garibaldi in Montenegro è uno degli episodi più rappresentativi e importanti della Resistenza dei militari italiani all’estero durante la Seconda Guerra Mondiale. Al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943, in questa regione dei Balcani era presente il XIV Corpo d’armata dell’esercito italiano, con sede a Podgorica, composto da quattro divisioni con unità dislocate in varie parti di un territorio esteso e montuoso: tre divisioni di fanteria (la Venezia, l’Emilia e la Ferrara), e una alpina, la Taurinense. La notizia dell’armistizio arrivò la sera dell’8 settembre via radio e la maggior parte dei militari la accolse positivamente, illudendosi che la guerra fosse finita e che si potesse a breve ritornare in patria.
È noto che ai militari delle divisioni dislocate in Montenegro, così come a tutte le truppe schierate nei territori d’occupazione, giunsero in poche ore ordini confusi e contraddittori: non lasciarsi disarmare dai tedeschi e allo stesso tempo far transitare le loro truppe anche nelle zone controllate dagli italiani; consegnare le armi ai tedeschi ma, in segreto, opporsi e reagire alle loro richieste.
Di fatto, in quelle fasi immediatamente successive all’armistizio, ogni decisione fu presa dai singoli comandi e fu diversa l’una dall’altra. Le due divisioni Emilia e Ferrara, ad esempio, ebbero vicende opposte: la prima tentò di difendere, uscendone sconfitta, la postazione italiana delle Bocche di Cattaro, attaccata dai tedeschi. Conservare questo porto strategico significava difendere l’unico luogo dal quale sarebbe stato possibile rimpatriare i soldati verso l’Italia. La Divisione Ferrara, invece, salvo qualche eccezione, si arrese o si unì ai tedeschi.
Come osserva giustamente lo storico Eric Gobetti in una recente pubblicazione, la vicenda della Divisione Garibaldi non comincia l’8 settembre, ma «inizia molti anni prima, quando milioni di europei vengono mobilitati per la guerra. Una guerra mondiale, l’ultima che si ricordi, la più devastante»1. Chi fu protagonista di questa storia di Resistenza e guerra partigiana era stato allo stesso tempo protagonista, in molti casi, delle fasi di occupazione italiana della Jugoslavia a partire dall’aprile del 1941, alleato delle forze militari del Reich nazista. Un’occupazione militare dura, violenta e oppressiva, che non aveva risparmiato la popolazione civile delle campagne e dei villaggi montenegrini. Alla luce di questa considerazione, risulta ancora più significativa la scelta operata dalle altre due divisioni, la Venezia e la Taurinense, che fin da subito rifiutarono di arrendersi o di consegnare le armi ai tedeschi, ma di combatterli.
Nel far questo occorreva però individuare un nuovo alleato, al quale unirsi per non restare totalmente isolati in un territorio ostile, sia dal punto di vista morfologico e climatico, sia per il contesto bellico: oltre alle forze militari tedesche, da una parte c’era l’esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, ovvero i partigiani guidati da Josip Broz Tito, fino a poche ore prima nemici contro i quali si era combattuto ferocemente e contro i quali si continuava ancora a combattere; dall’altra i četnici, una formazione monarchico-nazionalista con la quale l’esercito italiano aveva già collaborato nei mesi precedenti proprio per combattere la resistenza dei partigiani jugoslavi di Tito. Alla fine, non senza contrasti e dubbi, la scelta che maturò fu quella di allearsi con i partigiani: scelta difficile, che avrebbe significato lo spostamento degli uomini verso l’interno del paese e non verso le coste, e quindi la definitiva rinuncia a una possibilità di rimpatrio in Italia nell’immediato. La guerra continuava insomma.
Una vera e propria frattura si verificò nella Taurinense, il cui comando aveva sede a Nikšić. Nelle ore successive all’armistizio, una parte della Divisione si era unita all’Emilia nella difesa delle Bocche di Cattaro e aveva subito numerose perdite a causa dell’intensità degli attacchi tedeschi. I principali fautori di un’alleanza con i partigiani di Tito furono il comandante della Divisione, il generale Lorenzo Vivalda, e il maggiore Carlo Ravnich, comandante del gruppo Aosta, che era stato il primo ad aprire il fuoco contro i tedeschi per impedirne il passaggio delle truppe attraverso le postazioni italiane. La decisione di unirsi ai partigiani nell’interno del paese maturò anche perché era ormai impossibile riuscire a tenere le posizioni sulla costa. Contrari a questa scelta, tuttavia, furono numerosi ufficiali della divisione, che del resto non seguirono l’ordine: il colonnello Anfosso, ad esempio, da mesi intratteneva rapporti con i četnici e non sembrava intenzionato a rinunciarvi. Durante le fasi di spostamento verso l’interno per raggiungere i partigiani, la divisione fu decimata dal fuoco tedesco e četnico e solo pochi reparti riuscirono a raggiungere i partigiani a Kolašin, dove erano già arrivati i militari della Venezia.

Questa seconda divisione dimostrò invece un maggiore spirito di corpo. Era comandata dal generale Giovanni Battista Oxilia e il quartier generale era a Berane. Subito dopo l’armistizio, la sua decisione di non arrendersi e di opporsi ai tedeschi fu condivisa e accettata da tutti gli ufficiali e i soldati (salvo pochissime eccezioni). Tuttavia, anche in questo caso non fu semplice il passaggio con i partigiani di Tito, ostacolato tra l’altro da una missione inglese che spingeva per una loro alleanza con i četnici. Alla fine di settembre, così, i reparti della Venezia si scontrarono oltre che con i tedeschi, anche con i partigiani jugoslavi, che attaccarono le posizioni italiane (visto che i reparti della Venezia ancora non avevano scelto con chi combattere).
Questo episodio è per certi versi paradossale, ma rappresenta bene la complessità delle vicende belliche in corso: lo scontro impegnò infatti una compagnia della Venezia, comandata dal capitano Mario Riva, che si era pronunciata fin dall’inizio a favore dell’alleanza con i partigiani e che, nonostante ciò, difese strenuamente la posizione italiana dagli attacchi degli uomini di Tito. Proprio dopo questo combattimento, lo stesso Riva giunse ad accordi con i partigiani del II korpus dell’esercito di liberazione, comandato da Peko Dapčević.
L’iniziativa locale di Riva, dunque, accelerò la decisione del generale Oxilia di arrivare a un definitivo accordo con i partigiani: a inizio ottobre era ormai chiaro che fosse impossibile continuare da soli una guerra contro i tedeschi e i partigiani, nonché rimpatriare i soldati. Il 27 novembre 1943 il comando partigiano jugoslavo diede l’ordine di riunire in un’unica divisione i reparti superstiti della Venezia e della Taurinense, ulteriormente decimati dai combattimenti e dalle marce verso l’interno affrontate tra ottobre e novembre del ‘43. Su 20.000 effettivi all’8 settembre, la Divisione Italiana Partigiana Garibaldi, nata ufficialmente il 2 dicembre 1943, era composta da circa 10.000 uomini. Oxilia fu nominato comandante e Vivalda suo vice (nel corso dei mesi successivi si avvicendarono al comando prima Vivalda e poi Ravnich).
L’ordine del 27 novembre stabiliva innanzitutto la riorganizzazione interna dei soldati italiani: le tradizionali formazioni dell’esercito italiano non erano infatti adeguate alla guerriglia partigiana. Furono create tre brigate combattenti, costituite da circa 1500 uomini in armi, mentre il resto degli uomini, disarmati, andarono a comporre battaglioni di lavoratori, ognuno di circa 200-300 unità, con compiti di lavori dietro le linee (uomini che venivano comunque reinseriti nei corpi combattenti man mano che questi perdevano gli effettivi).
Questo ordine sanciva la completa subordinazione dei militari italiani al comando partigiano, dal quale dipendevano tutte le decisioni operative e non solo: si pensi che anche la denominazione “Garibaldi”, da quel che sembra, fu proposta dai partigiani, seppur in accordo con il comando italiano. Nonostante questa subordinazione, ai militari della Garibaldi fu permesso di continuare a combattere con la divisa e le stellette italiane e non fu imposto loro il giuramento, ritenendo sufficiente quello fatto all’esercito italiano.
I 18 mesi di guerra partigiana della Divisione furono durissimi. I militari italiani si trovarono a combattere un tipo di guerra per la quale non erano stati addestrati. La guerriglia partigiana presupponeva infatti la conoscenza del territorio e si basava su movimenti rapidi ed efficaci. Il “battesimo del fuoco” avvenne a Pljevlja, già il 5 dicembre, cittadina dove aveva sede il comando della divisione e dove i militari italiani si erano concentrati in attesa dell’arrivo di rifornimenti dagli Alleati (in particolare l’equipaggiamento invernale): Pljevlja fu attaccata da una grande offensiva tedesca, che sorprese gli italiani avvisati con molto ritardo dai comandi partigiani e lasciati soli a combattere. Circa 600 furono le vittime e più di mille i feriti. La Divisione partecipò a molte altre operazioni a fianco dell’esercito di liberazione jugoslavo, presso località poi entrate nel mito della memoria dei reduci: Pljevlja dunque, dove tra l’altro sorge ancora oggi il monumento alla Garibaldi eretto nel dopoguerra e inaugurato dal presidente Sandro Pertini nel 1983; Bijelo Polje e il fiume Lim; la piana di Berane; il massiccio del Durmitor.
Durante questi mesi i soldati furono costretti a lunghe e sfiancanti marce sulla neve per spostarsi attraverso un territorio montuoso e impervio: male equipaggiati, spesso vestiti di stracci e senza le scarpe adeguate, molti soldati patirono il freddo e si ammalarono di tifo, malattia che causò la morte di centinaia di uomini, anche tra coloro che erano stati destinati al lavoro nelle retrovie.
Già nel mese di giugno 1944, le unità combattenti della Garibaldi, falcidiate dagli attacchi tedeschi e četnici, furono integrate con gli uomini destinati in precedenza ai battaglioni di lavoro. Nei ranghi della Divisione Garibaldi entrarono anche centinaia di militari italiani sbandati o imprigionati nei territori jugoslavi che venivano progressivamente liberati. Tra questi, anche quei soldati che si erano arresi o che erano passati dopo l’8 settembre con i tedeschi, ai quali fu però permesso di entrare di nascosto nella Divisione, in nome di una comune appartenenza nazionale, e che furono così protetti dalla sicura fucilazione da parte dei comandi partigiani jugoslavi.
Alla fine del mese di febbraio 1945 cominciarono le operazioni di rimpatrio in Italia, caratterizzate da molte difficoltà. Una parte delle autorità italiane, come quella che faceva riferimento al sottosegretario alla Guerra, il comunista Mario Palermo, avrebbe voluto lasciar combattere la Divisione a fianco dei partigiani di Tito fino alla completa liberazione del territorio jugoslavo. Il rimpatrio fu invece possibile grazie all’efficace insistenza del comandante Ravnich, che riuscì a convincere jugoslavi, italiani e Alleati dell’opportunità di far rientrare questi uomini in patria, ormai stanchi per una guerra che durava da troppi anni. I soldati superstiti furono quindi concentrati a Dubrovnik e si imbarcarono per l’Italia l’8 marzo: vestiti con divise nuove appena rifornite per l’occasione, arrivarono in Puglia, accolti da dimostrazioni popolari, circa 3.800 uomini, mentre il resto degli effettivi era rimasto ferito, prigioniero, disperso o aveva trovato la morte.
1 E. Gobetti, La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro (1943-1945), Salerno editrice, Roma 2018, p. 7.
Tratto da: ANVRG Storie narrate e documentate. Le sedi, i cimeli, gli archivi, a cura di A. Garibaldi Jallet e M. Stefanori, La Maddalena (SS), Paolo Sorba Editore 2019, pp. 74-83